Dalla rivista Selezione del Reader’s Digest del settembre 1965
un altro reportage sulla tragedia della Nova Scotia.
TRAGEDIA SULL’OCEANO
L’affondamento della nave da carico e passeggeri Nova Scotia, nel 1942, superò in orrore tutte le tragedie del mare. Silurata da un sommergibile tedesco nell’Oceano Indiano a sudovest del Madagascar, la nave stracarica affondò prima che potesse esser messa in mare una sola lancia di salvataggio. Centinaia di prigionieri di guerra italiani, di truppe sudafricane e d’uomini di equipaggio inglesi si dibatterono tra le onde, facile preda dei pescicani che infestano quelle acque. La censura di guerra ha tenuto finora segreti i particolari di questa atroce sciagura.
Il 17 settembre 1942 il sommergibile tedesco U-177 partì da Kiel per una missione che sarebbe risultata fatale. Lo comandava il Kapitanleutnant Robert Gysae, di 31 anni, noto come un ufficiale freddo, implacabile, ligio al dovere. Il suo compito era di doppiare il Capo di Buona Speranza, infliggendo durante la rotta quanti più danni poteva, e quindi attaccare il naviglio alleato nelle acque dell’Oceano Indiano fino allora sicure. La mattina del 28 novembre l’U-177 era in agguato al largo di Durban, l’attivo porto della costa orientale sudafricana che serviva ai rifornimenti alleati. Poco dopo il levar del sole Gysae scorse un puntolino all’orizzonte: un mercantile che procedeva verso il sommergibile senza sospettare di nulla. Quest’ultimo, un’unità che dislocava 1600 tonnellate, s’immerse e attese.
Quindici giorni prima, mentre l’U-177 stava doppiando il Capo di Buona Speranza, il vecchio mercantile Nova Scotia era alla fonda nella rada di Massaua, in Eritrea, 5000 miglia più a nord. Costruita nel 1926 per la linea Liverpool – Halifax, questa nave di 6796 tonnellate era stata assegnata dal Ministero dei Trasporti di Guerra della Gran Bretagna alle rotte dell’Africa Orientale. Trasportava a Suez truppe del Sud Africa per la campagna dell’Africa Settentrionale: nel viaggio di ritorno imbarcava prigionieri di guerra italiani destinati ad ovviare alla penuria di manodopera nel Sud Africa.
Dopo una dozzina di viaggi senza incidenti e senza che fosse stata notata l’attività di sommergibili nella zona, le precauzioni erano poche. La Nova Scotia non viaggiava in convoglio e non aveva protezione aerea o navale. Disponeva
soltanto di cannoni da quattro pollici a poppa e di due pezzi antiaerei sul ponte.
IL 14 novembre la Nova Scotia salpò da Massaua gremita di prigionieri di guerra italiani e di internati civili il cui numero è stato variamente valutato tra 780 e 1000. Nei 13 giorni di navigazione fino all’Oceano Indiano e attraverso il Canale di Mozambico non accadde nulla di particolare. Il sabato mattina 28 novembre la nave era di nuovo in pieno oceano. Il mare era calmo, il cielo sereno. Le lancette dell’orologio di bordo erano vicine alle 9.12. l’incursore tedesco era pronto. Alle 9.12 in punto la Nova Scotia giunse a 300 metri dal sommergibile. Gysae dette ordine di lanciare i tre siluri di prua.
A fondo in sei minuti
D’improvviso, in rapida sequenza, tre violente esplosioni scossero il mercantile.
La Nova Scotia ondeggiò paurosamente poi s’inclinò sul fianco sinistro. Alcuni serbatoi di nafta presero fuoco, avvolgendo in un mare di fiamme la zona centrale della nave e il ponte. In coperta la confusione era indescrivibile.
Centinaia di prigionieri italiani si assiepavano lungo i parapetti senz’avere il coraggio di gettarsi in acqua e ostruendo il passaggio a quelli che volevano farlo. Uomini orribilmente ustionati correvano come impazziti, urlando per il dolore. Assurdamente un uomo si affannava a cercare la sua dentiera che l’esplosione gli aveva fatto saltare dalla bocca.
Un tarchiato e anziano marinaio italiano era seduto contro il parapetto a fumare la pipa quando avvenne l’esplosione. S’alzò e si guardò intorno con calma. Poi prese una cima. Ne legò un capo intorno alla vita e l’altro al parapetto. Aveva 43
deciso: preferiva una morte rapida. Il cuoco di bordo ebbe la stessa idea: salì in coperta, si guardò intorno e poi rientrò all’interno della nave in fiamme.
Alcuni uomini dell’equipaggio cercarono freneticamente di calare in acqua le tre imbarcazioni di salvataggio di dritta, (quelle sulla sinistra erano state fatte a pezzi dallo scoppio). Una fu infine liberata, ma rovesciò in mare i suoi occupanti quando un paranco si spezzò. La lancia penzolò nel vuoto finché il cavo del paranco all’altro capo fu tagliato e l’imbarcazione piombò in mare riempiendosi subito d’acqua.
All’interno della nave, J. N. Herman, un avvocato che aveva prestato servizio nell’Africa del Nord nell’artiglieria da campo sudafricana, era nella sua cuccetta quando avvenne la prima esplosione. Nella cabina c’erano con lui altri due uomini. Herman corse alla porta sperando di riuscire a salire in coperta. Una fiumana di nafta in fiamme, simile a un torrente di lava, gli veniva incontro ed egli richiuse di colpo la porta. I suoi compagni di cabina riuscirono a sgusciar fuori dal piccolo oblò. Herman, con il giubbotto di salvataggio su una spalla, cercò di seguirli, ma rimase incastrato. Con uno sforzo rientrò nella cabina, mise il giubbotto su una cuccetta lì accanto, quindi s’infilò di nuovo nell’oblò, uscì all’esterno, allungando dentro una mano per afferrare il giubbotto prima di lasciarsi cadere in acqua.
Erano trascorsi cinque minuti e alla Nova Scotia rimaneva un solo minuto di vita. Decine di uomini erano ancora accalcati contro il parapetto di poppa.
Quando la prua si sollevò negli ultimi secondi di vita della nave, dieci o dodici uomini s’afferrarono all’elica ferma e furono trascinati a fondo nel grande vortice.
Ora il mare deserto era costellato di uomini doloranti e neri di nafta. Per questi miseri relitti umani cominciò allora la lunga tormentosa lotta per la salvezza, una lotta che per la grande maggioranza sarebbe finita con la morte. Una ventina di naufraghi, tra cui il comandante della Nova Scotia, capitano Hender, lottavano attorno a quell’ultima imbarcazione piena d’acqua. Un giovane marinaio inglese domandò che probabilità avessero di salvarsi. “Nessuna, temo” rispose il comandante. Per quanto lo riguarda personalmente, l’ipotesi era giusta.
Gravemente ustionato, probabilmente morì poco dopo.
“Fatevi coraggio!”
Allorchè l’U-177 emerse, la Nova Scotia era scomparsa. Il comandante Gysae scese dalla torretta sulla coperta del sommergibile per osservare la tragedia di cui era stato l’autore. Il suo compito immediato era d’identificare la nave colata a picco.
Cominciò col parlare in inglese attraverso il megafono. Gli giunsero in risposta grida di “Italia! Italiani!”. Alcuni naufraghi sollevarono il braccio nel saluto fascista. D’improvviso, Gysae si rese conto di quel che aveva fatto: aveva affondato una nave carica di suoi alleati! Profondamente turbato, risolse di prendere a bordo due superstiti – era il massimo che potesse imbarcare sul suo sommergibile – e venne lanciata una cima. Un giovane cameriere di bordo l’afferrò. Fu issato sulla coperta del sommergibile e, qualche minuto dopo, fu seguito da un vecchio marinaio italiano. Dopo qualche mese, sarebbero stati sbarcatoi sani e salvi nella nuova base dell’U-177 a Bordeaux, in Francia. Prima d’allontanarsi Gysae gridò: “Mi duole moltissimo. Avviserò per radio Berlino e vi saranno inviati soccorsi.
Fatevi coraggio!”.
Sarebbe stato un suicidio per Gysae chiedere immediatamente aiuti. Era a sole poche decine di miglia dalla costa del Sud Africa e aerei nemici sarebbero accorsi a bombardarlo nel giro di pochi minuti. Perciò si diresse al largo per un’ora; poi, contravvenendo ai regolamenti, emerse e chiese per radio a Berlino d’inviare soccorsi ai naufraghi.
Pescicani!
Centinaia di uomini che si dibattevano in mare annegarono nel giro di pochi minuti. Altri lottarono finché persero le forze. Altri ancora furono soffocati dalla viscida nafta. Alla fine della prima ora l’acme dell’orrore era superato. In seguito la morte avrebbe scelto le sue vittime con maggior cura e, per molti aspetti, la loro fine sarebbe stata ben più atroce.
La speranza di salvezza per i naufraghi che avevano superato quella prima ora stava in un pezzo di legno o in qualsiasi altro rottame cui potessero aggrapparsi. Il sergente Lorenzo Bucci, un italiano piccolo ed emotivo, riuscì a raggiungere un portellone di stiva a cui erano aggrappati altri dieci o dodici italiani. Al cader della notte Bucci e gli altri che erano saliti su quella zattera di fortuna furono testimoni d’un dramma raccapricciante. Ogni tanto un naufrago isolato che nuotava nelle vicinanze alzava improvvisamente le braccia, urlava e scompariva. Poco dopo, una macchia rossa colorava l’acqua. Erano arrivati i pescicani: e ora la morte, nella sua forma più atroce, faceva da padrona.
Nemmeno nell’Oceano Indiano, che è una delle zone più infestate dai pescicani, si era mai visto un attacco di squali di quell’entità. I naufraghi, in acqua, lottavano ferocemente per conquistare un posto sui relitti.
Due uomini neri di nafta, un sudafricano ed un siciliano, che si tenevano agalla su un’asse di legno, cercavano d’avvicinarsi all’improvvisata zattera di Bucci, vogando disperatamente con le braccia. Bucci e i suoi compagni fecero capire chiaramente che non volevano altri con loro: erano già in condizioni quanto mai precarie. Il sudafricano tirò fuori un coltello. “Non voglio ammazzarvi” disse. “Al contrario, cerco di salvarvi. E’ più facile che ci salviamo, se stiamo uniti”.
L’ostilità si dileguò. Il sudafricano si tolse la cintura e legò il suo asse di legno al portellone di stiva.
I nuovi arrivati spiegarono come mai fossero fuggiti ai pescicani. “Con tutta questa nafta addosso dobbiamo essere ben poco appetitosi” disse il sudafricano. Ogni tanto uno degli uomini allentava la presa e veniva trascinato via dalle onde. Il sudafricano, ch’era un forte nuotatore, lo riportava in salvo.
Durante la lunga notte un italiano esausto chiese agli altri il permesso di salire sull’asse di legno per riposarsi. Non ci furono obiezioni.
Un’ondata spazzò l’asse e quel naufrago scomparve. Un altro prese il suo posto. Mezz’ora dopo, un’altra ondata spazzò l’asse di legno e anche il secondo scomparve.
“Buongiorno..”
James Latham, nostromo della Nova Scotia, si era gettato in mare subito dopo l’esplosione. Una scaletta di legno galleggiava nelle vicinanze. Latham vi salì,
si tolse la cintura, legò con questa i ginocchi alla scaletta stessa e vi si sdraiò sopra, infilando le braccia tra un piolo e l’altro al disopra della
testa. Col passare delle ore si addormentò e svegliandosi si trovò a fissare il cielo stellato.
Avvertendo un movimento sotto di sé, guardò attraverso i pioli della scaletta e vide la sagoma fosforescente d’un pescecane che lo seguiva. Poi lo
squalo scomparve e Latham si riappisolò.
Spuntata l’alba, cominciò a vogare con le mani senza saper bene perché o dove. A un certo punto passò vicino a un relitto su cui erano sei italiani e un
suo amico, John Halligan, un dispensiere. Latham sollevò il capo, lo chino leggermente e pronunciò un cortese buongiorno come se salutasse
un conoscente che in una bella giornata passeggiasse su ponte di coperta. A dispetto delle circostanze, gli uomini sul relitto non poterono fare a meno
di sorridere. Poi Latham si allontanò, vogando.
Le speranze svaniscono
Nonostante le frequenti zuffe che quasi sempre finivano in modo letale, non mancarono gli atti di generosità. Oliviero Freschi, un ex albergatore italiano
di Decamerè, in Eritrea, era riuscito a salire su una piccola zattera di fortuna con altri naufraghi. “Eravamo in 28” raccontò poi. “Tutti prigionieri
italiani tranne un maggiore inglese. La zattera non poteva portare più di una ventina di persone e minacciava continuamente di ribaltarsi. L’ufficiale
inglese capì subito che sarebbe stato il primo a doversene andare e si aggrappò alle travi gridando: “Ho due bambini, non mandatemi via!”, ci fu
qualche mormorio tra i prigionieri, ma nessuno ebbe l’animo di allontanarlo. Si salvò con noi”.
Dopo essersi gettato in mare, Herman, l’avvocato, nuotò fino a un rottame che poteva sostenere a mala pena una persona. A poco a poco la corrente
lo spinse verso una grossa zattera di fortuna che, gremita d’italiani, galleggiava a stento. Herman vi salì. “Avrebbero potuto benissimo gettarmi in
acqua” disse in seguito. Subito dopo si accostò un altro piccolo rottame con due uomini a bordo, di cui uno orribilmente ustionato. Herman legò il
rottame a fianco della
grossa zattera e più tardi tirò su quest’ultima l’ustionato.
La domenica, all’imbrunire, le speranze salirono alle stelle sulla zattera di Herman. Fu avvistata una nave all’orizzonte. Mentre mani volonterose,
lo sorreggevano per le gambe, Herman, in piedi, si mise a sventolare una camicia, ma non ci fu alcun segno che dalla nave li avessero visti e poco dopo
questa scomparve all’orizzonte. Le speranze crollarono. Parecchie volte durante la notte la nave fu avvistata di nuovo, ma ogni volta si
allontanò.
Portoghesi in aiuto
Quando a Berlino giunse il dispaccio radio dell’U-117, fu inviata all’ambasciata tedesca a Madrid una richiesta di soccorso con istruzione di
trasmetterla all’ambasciata tedesca a Lisbona. Questa doveva informare il governo portoghese – il Portogallo era un Paese neutrale – e chiedergli
d’inviare soccorsi da Mozambico, la colonia portoghese dell’Africa Orientale che era la località più vicina al punto in cui era affondata la Nova
Scotia.
La nave scuola portoghese Afonso de Albuquerque, una fregata di 1400 tonnellate, aveva fatto scalo il giorno prima a Lorenzo Marques, capitale
della colonia portoghese. Contava di rimanere in porto un giorno o due soltanto, perciò aveva provveduto a rifornirsi subito e i suoi serbatoi d’acqua
e di nafta erano pieni. Questa circostanza si dimostrò d’importanza vitale per i superstiti della Nova Scotia.
Alle 21 del sabato, 12 ore dopo il siluramento della Nova Scotia, giunse un messaggio nel locale radio della fregata. Il comandante, capitano José
Augusto Guerriero De Brito, fu subito mandato a chiamare in un ristorante della città. Nel momento in cui saliva a bordo dell’Albuquerque gli fu
consegnato un dispaccio:
PROCEDETE IMMEDIATAMENTE TUTTA FORZA PER RACCOGLIERE SUPERSTITI NAVE AFFONDATA ORE 9 ODIERNE LATITUDINE 28° 30” S, LONGITUDINE 33° E, 180
MIGLIA A SUD DI LORENZO MARQUES.
Alle 2.30 di domenica l’Albuquerque salpò. A causa della corrente il capitano De Brito sapeva che con tutta probabilità avrebbe incontrato i naufraghi
molte miglia a sud del punto in cui la Nova Scotia era affondata. Alle 6 era nella zona delle ricerche e collocò vedette nei punti strategici della
nave. Ma soltanto alle 13.12 fu avvistato il primo naufrago. La voce di un ufficiale sul ponte di comando rimbombò attraverso gli altoparlanti: “
Relitto tre miglia a nordest”.
L’Albuquerque vi si diresse a tutta forza, attraverso il mare agitato. Fu calata una biscaglina lungo il fianco della nave, ma quasi tutti i 18 uomini sul
relitto erano talmente deboli che bisognò issarli a braccia.
In coperta furono tolti ai naufraghi gli abiti neri di nafta e fu dato loro un bicchierino di aguardiente, un rozzo brandy portoghese molto alcolico. Poi
i marinai portoghesi li condussero alle docce, fecero loro dei bagnoli agli occhi dolorosamente gonfi e infiammati e praticarono iniezioni ai
superstiti il cui polso era molto debole.
Una decisione dolorosa
I rimanenti relitti d’una certa mole erano stati avvistati, ma le vedette avevano scorto anche decine di naufraghi isolati aggrappati ai rottami. De Brito
dovette prendere una dolorosissima decisione. Per il momento non si sarebbe curato delle più grosse zattere di fortuna, perché gli uomini che vi
stavano sopra erano in condizioni migliori ed era più facile che potessero salvarsi. Bisognava soccorrere per primi quelli che avevano minori
probabilità di salvezza. Quindi gli uomini sulle grosse zattere videro scomparire la nave e credettero d’aver perso ogni speranza.
Entro la sera di domenica l’Albuquerque aveva tratto in salvo 122 persone. Il sole tramontò alle 18, e alle 19,30 De Brito fece rientrare per la notte le
due imbarcazioni di salvataggio e la sua unica lancia a motore. Ma le ricerche continuarono con i fasci di luce di due grandi proiettori che
sciabolavano il mare nell’oscurità. Alla mezzanotte erano stati salvati altri sei superstiti; quindi le ricerche furono sospese per il resto della
notte.
Il mattino dopo alle 9.50 fu avvistata di nuovo una delle grosse zattere di fortuna. Quando era stata avvistata il giorno prima aveva a bordo 15 uomini;
ora ce n’erano 12. L’Albuquerque li trasse in salvo.
A quel punto una vedetta scorse l’ultima grossa zattera di fortuna su cui sventolava una camicia azzurra come una patetica richiesta di soccorso.
Allo stesso tempo un’altra vedetta scorse un piccolo rottame su cui si tenevano due esseri umani. Quali salvare per primi? Questa volta, con il mare
che s’ingrossava di minuto in minuto, De Brito si disse che l’Albuquerque doveva pensare prima ai naufraghi che erano in numero maggiore e raccolse i
17 uomini a bordo della grossa zattera.
Alle 13.20 i due superstiti sul piccolo rottame, un italiano ed un inglese, furono avvistati di nuovo. Quando qualche ora prima l’Albuquerque si era
allontanato da loro per andare a raccogliere gli uomini della grossa zattera, l’italiano s’era perso d’animo e si era gettato in mare. L’inglese gli
era andato dietro e l’aveva riportato sul rottame.
A bordo della nave che li aveva soccorsi l’italiano ringraziò con grandi effusioni il suo salvatore, ma questi rispose freddamente: “In acqua eravamo due
esseri umani che lottavano per sopravvivere. Ora io sono di nuovo un inglese e voi un italiano, cioè nemici”. E con questo volse le spalle e si
allontanò.
Il capitano De Brito dovette prendere un’altra ardua decisione alle 16 di quel giorno. S’avvicinava una violenta burrasca e la speranza di salvare
qualche altro naufrago sembrava molto vaga. Inoltre egli aveva la responsabilità di far ricoverare in ospedale al più presto possibile alcune decine di
persone in gravi condizioni. Con 183 superstiti a bordo, si diresse in porto. Alle 10 del martedì l’Albuquerque arrivò a Lorenzo Marques. Molti dei
naufraghi si erano abbastanza ristabiliti per poter scendere a terra con le proprie gambe, ma alcune decine dovettero essere trasportati in barella.
Per parecchie settimane il mare continuò a gettare sulle spiagge vicino a Durban i cadaveri delle vittime.
Epilogo
I 14 superstiti dell’equipaggio della Nova Scotia, che contava 114 uomini, erano liberi di partire non appena fossero stati in condizione di viaggiare e non
fecero altro che prendere il treno per Durban. Ma i sudafricani, come belligeranti erano soggetti all’internamento. Naturalmente tutti volevano fuggire
e i portoghesi non li ostacolarono granché. I fuggitivi si fecero portare in tassì alla vicina frontiera del Transvaal e la varcarono tranquillamente,
riconquistando la libertà.
Circondati da territorio nemico, gl’italiani non avevano dove andare. Con il piccolo sussidio che ricevevano dal governo italiano, si stabilirono nella
città, dove conducevano una vita piacevole, facendo qualche lavoro per arrotondare il bilancio. Per quasi tutti, il ritorno in Patria ebbe inizio
soltanto nel 1946: parecchi erano stati dati per morti dalle mogli e dai parenti. Alcuni, soddisfatti della vita che conducevano nella colonia,
rimasero a Lorenzo Marques e vi sono tuttora.
Il comandante dell’Albuquerque, capitano De Brito, ora vice-ammiraglio a riposo, vive a Lisbona. Il Kapitanleutnant Gysae adesso è capitano e fa
parte del personale navale addetto al Ministero della Difesa della Germania Occidentale a Bonn.
L’Albuquerque, la nave soccorritrice, ha avuto un triste destino. Trovatasi a sostenere un combattimento senza speranza contro alcune motosiluranti,
fu affondata dal suo stesso equipaggio al largo di Goa nel dicembre del 1961, quando l’India attaccò quella colonia portoghese.
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